Il testo rappresenta la relazione scritta dell’intervento tenuto il 16 settembre 2012 all’incontro organizzato a Cagli (PU) dall’Associazione Contemporaneo “Dopo la vita prima della morte – Libertà, diritto ed etica nelle scelte di fine vita” con Antonio Moresco, Salvatore Frigerio e Stefano Manfucci.

Lo scopo di questa mia relazione di oggi è quello di fornire un inquadramento giuridico dell’istituto del testamento biologico, un tema assai dibattuto e che coinvolge aspetti medici e giuridici ma anche soprattutto aspetti etici, filosofici e religiosi che quindi presuppongono prese di posizione fortemente contrastanti e avversate dai fautori dell’una o dell’altra posizione. Pur precisando che non tratterò qui questi aspetti etici e filosofici sono tuttavia consapevole che essi costituiscono comunque lo sfondo nel quale anche una ricostruzione giuridica dell’istituto si inscrive e che pertanto non possono essere disconosciuti.

Esaminerò in primis il quadro giuridico di riferimento in base al quale si ritiene già oggi, in mancanza di una legge che disciplina in maniera specifica l’istituto, la piena legittimità del testamento biologico alla luce dei principi generali dell’ordinamento giuridico nazionale e internazionale, per poi affrontare, in senso critico, è bene precisarlo fin da ora, alcuni aspetti del Disegno di legge sul testamento biologico approvato dal Senato della Repubblica e in seconda lettura dalla Camera dei Deputati nella presente legislatura, nella consapevolezza comunque che il recente mutamento del quadro politico, renderà più difficile il completamento dell’iter legislativo iniziato.

Per testamento biologico si intende quell’istituto, ed anche quel documento, per mezzo del quale una persona, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, esprime la sua volontà, e incarica un terzo di eseguire tale volontà, in ordine ai trattamenti ai quali vorrebbe o non vorrebbe essere sottoposta, nell’eventualità in cui, per effetto del decorso di una malattia o di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato.

Due sono quindi i contenuti essenziali del testamento biologico: una manifestazione di volontà in ordine ai trattamenti sanitari da ricevere o da rifiutare in particolari condizioni di malattia e una delega ad un terzo soggetto, c.d. fiduciario, al quale si attribuisce l’incarico di prendere le decisioni terapeutiche in propria vece qualora il soggetto non sia più in grado di farlo autonomamente.

Dal punto di vista nominalistico l’espressione più comune con cui oggi si definisce questo istituto è quella di “testamento biologico” che rappresenta una traduzione libera del termine inglese “living will” con cui l’istituto è definito nei paesi anglosassoni; ma la dottrina che si è occupata dell’argomento non ha mancato di evidenziare come l’espressione Testamento biologico non sia in realtà la più adatta, sotto il profilo giuridico, a rappresentare l’istituto, preferendosi altre definizioni più tecniche quali “dichiarazioni anticipate di trattamento” o “direttive anticipate di trattamento”. La seconda appare forse preferibile in quanto l’espressione “direttive” assume un significato più cogente rispetto al termine “dichiarazioni” e quindi meglio si presta ad identificare l’aspetto prescrittivo della volontà del soggetto; comunque qui per comodità si userà l’espressione testamento biologico in quanto anche se meno tecnica è più comunemente idonea a rappresentare l’istituto.

Per sgomberare il campo da possibili equivoci è necessario però mettere in risalto da subito la differenza che sussiste tra testamento biologico ed eutanasia; questo quantomeno per togliere spazio alle argomentazioni di coloro che, essendo contrari per proprie ragioni etiche e religiose alla legittimità del testamento biologico nel nostro ordinamento, tendono spesso a fare confusione tra i due aspetti cercando di sfruttare quella che è una opposizione forte e radicata nella coscienza civile alla eutanasia, anche per contrastare le ragioni di coloro che sostengono la legittimità del testamento biologico.

Con il testamento biologico la persona compie una scelta, proiettata nel futuro, che, anche quando coinvolge dispositivi di sostegno vitale indispensabili per la sopravvivenza, riguarda pur sempre trattamenti sanitari e si manifesta attraverso il rifiuto di particolari cure, nell’ambito del diritto del cittadino di ricevere o rifiutare questi trattamenti sanitari per mezzo di quello che viene definito il “consenso informato”.

Con l’eutanasia invece, senza qui entrare nel merito delle ulteriori distinzioni tra eutanasia attiva, eutanasia passiva, ecc, si richiede ad un soggetto, normalmente un medico, la somministrazione o la prescrizione di una sostanza letale che se somministrata al richiedente ne provoca la morte e che quindi non può essere in alcuno modo paragonata ad un trattamento sanitario. Con il testamento biologico il soggetto chiede solo, qualora si troverà in una situazione di incapacità a manifestare il proprio consenso, di non essere sottoposto a trattamenti medici che egli non accetta o considera lesivi della propria dignità sulla base delle sue personali convinzioni etiche, per cui la sospensione di questi trattamenti lascia spazio al decorso della malattia e al sopraggiungere della morte come evento naturale. Diversamente con l’eutanasia la morte non è conseguenza della malattia o dello stato della persona, ma è diretta conseguenza dell’intervento esterno del medico che somministra il farmaco letale, quindi la diversità tra le due situazioni è di tutta evidenza.

Il problema del fine-vita, nel cui spazio il testamento biologico si inserisce, è emerso in tutta la sua drammaticità negli ultimi anni grazie al progresso tecnico scientifico della medicina che ha permesso la scoperta e la realizzazione di tecniche sanitarie sempre più complesse e sofisticate che, sia grazie alla scoperta di nuovi farmaci, sia alla elaborazione di macchinari tecnologicamente avanzati, hanno sempre più allontanato nel tempo il momento del fine della vita. La potenza della tecnica è riuscita a creare uno spazio nuovo, tra la vita e la morte, una specie di limbo, uno spazio di vita artificiale all’interno del quale sono state messe in crisi tutte le concezioni e le convinzioni umane sul significato della vita e della morte, coinvolgendo problemi morali, filosofici, giuridici e religiosi. E’ in questa terra di nessuno, tra la vita e la morte, che sorge la necessità di regolamentare l’azione umana attraverso l’elaborazione di principi giuridici e norme di legge che, nel rispetto delle personali convinzioni etiche individuali, si pongano però in un’ottica di libertà e di universalità, in quanto la legge si rivolge a tutti i cittadini e non solo ad una parte di essi che incarna una determinata visione del mondo.

I casi noti di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby e le violente contrapposizioni, anche ideologiche, che ne sono seguite tra i sostenitori dell’una o dell’altra altra visione e interpretazione del problema, hanno messo in luce questa necessità, che il diritto ha il compito di affrontare andando a colmare le lacune che lo spazio vuoto del “fine vita” presenta, ma non per normare la vita e la morte secondo categorie standardizzate a priori, quanto piuttosto per permettere che tale “spazio vuoto” possa essere affrontato da ciascuno in piena libertà di coscienza e di autodeterminazione; compito del diritto è quello di predisporre e garantire gli strumenti giuridici affinché ciò sia possibile e conseguentemente anche gli strumenti di controllo della trasparenza e conformità delle azioni individuali alla legge ed alla effettiva volontà manifestata .

E’ quindi auspicabile un “diritto mite”, per usare una nota definizione di un grande giurista, un diritto che non pretenda di imporre a tutti una concezione della vita, del dolore o della morte, ma rispetti l’identità e la libertà di ciascuno offrendo gli strumenti perché possano esprimersi.

In Italia oggi, a differenza che in altri paesi europei, non esiste una legge che disciplini in maniera specifica la materia del testamento biologico e quindi la legittimità di un simile istituto viene spesso messa in discussione dai fautori della tesi contraria, spesso con argomenti più morali o religiosi che giuridici.

Io credo invece che lo spazio giuridico creato dai principi costituzionali, dalle convenzioni internazionali e dai principi di deontologia medica, sia già sufficiente ad affermare la piena legittimità nel nostro ordinamento del testamento biologico, pur condividendo la assoluta opportunità di una legge in materia.

Il principio cardine dal quale prendere le mosse per affrontare questa controversa materia è quello del “consenso informato” ossia il principio per cui nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario senza che abbia espresso il proprio consenso al trattamento stesso in piena libertà ma anche con la piena consapevolezza (informazione) circa i rischi e le conseguenze a cui andrebbe incontro sia nel caso di sottoposizione al trattamento sanitario che in caso di rifiuto dello stesso. Il principio del consenso informato è lo specchio del nuovo rapporto che si instaura tra medico e paziente, non più basato su una visione paternalistica dell’intervento medico ma su un rapporto dialettico tra i due soggetti della relazione: il medico deve informare il paziente e questo deve dare il suo consenso alla terapia e agli interventi. La pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi; senza il consenso informato l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente, salvo casi particolari di necessità ed urgenza disciplinati dai codici deontologici.

Il principio del consenso informato ha un sicuro fondamento nelle norme della Costituzione e in primis nell’articolo 32 della Costituzione della Repubblica Italiana che dice espressamente:

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”.

L’articolo 32 della Costituzione pone innanzi tutto un principio di libertà e di autodeterminazione dell’individuo stabilendo espressamente un divieto di imporre un determinato trattamento sanitario senza che il paziente, adeguatamente informato, esprima il suo libero consenso a riceverlo; l’eccezione può essere disposta solo con una norma di legge, e quindi con una norma pur sempre sottoposta al vaglio della legittimità costituzionale, quando sussistono esigenze primarie di salvaguardia della intera collettività, come nel caso di profilassi obbligatorie contro malattie epidemiche, in cui lo stato patologico di un individuo mette a rischio non solo la sua salute ma la salute di tutta la collettività; ma anche in questo caso i limiti del rispetto e della dignità della persona non possono essere violati.

La norma costituzionale rappresenta quindi un perfetto equilibrio tra rispetto dell’autonomia e della volontà del singolo ed esigenze della società e trova i suoi corollari nelle altre norme della Costituzione e precisamente nell’articolo 2 che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, della sua identità e dignità, nell’articolo 13 che proclama l’inviolabilità della libertà personale nella quale è ricompresa la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo (Corte Cost. sentenza n. 471 del 1990) e rivela la preoccupazione di porre il corpo della persona al riparo da interferenze esterne, principio questo che è fatto risalire addirittura alla Magna Charta inglese del 1215 e al suo habeas corpus.

La Costituzione affermando quindi il principio di volontarietà dei trattamenti sanitari, fonda oltre che un diritto sociale ad essere curati (sancito nel primo comma dell’art. 32) anche un diritto di libertà di curarsi o di non curarsi, di rifiutare le cure o di interrompere una cura già intrapresa a fronte di un mutamento di convinzioni, ovverosia di revocare un consenso già precedentemente manifestato, anche qualora queste decisioni possano mettere a repentaglio la vita stessa del paziente.

A livello di fonti sovranazionali il medesimo principio del consenso informato trova riconoscimento in due trattati europei:
innanzi tutto nella Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina firmata a Oviedo il 4 aprile 1997, resa esecutiva con la legge di autorizzazione alla ratifica 28 marzo 2001 n. 145 (anche se l’atto di ratifica vero e proprio non è stato mai emanato). La Convenzione di Oviedo stabilisce due principi fondamentali: innanzi tutto all’art. 5 ribadisce il concetto già espresso dalla Carta costituzionale che un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che il soggetto sottoposto a tale intervento abbia espresso il suo consenso libero ed informato. Inoltre all’articolo 6 stabilisce che qualora un soggetto, per qualsiasi motivo, non possa esprimere il proprio consenso all’intervento, questo consenso debba essere espresso dalla persona che secondo la legge rappresenta la persona in quel momento incapace.

Dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea adottata a Nizza il 7 dicembre 2000 si evince come il consenso libero e informato del paziente all’atto medico vada considerato non solo sotto il profilo della liceità del trattamento ma prima di tutto come un vero e proprio diritto fondamentale del cittadino europeo, riguardante il più generale diritto all’integrità della persona.

Infine giova ricordare anche l’art. 5 della Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani approvata dall’UNESCO in cui si proclama la necessità di rispettare l’autonomia della persona nel compimento di scelte sanitarie purché esercitata in modo responsabile e purché tale autonomia non invada la sfera giuridica e personale altrui.

Nella legislazione nazionale il principio del consenso informato che sta alla base del rapporto medico-paziente è enunciato in varie leggi speciali a partire dalla Legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (legge 23 dicembre 1978 n. 833) la quale dopo avere premesso all’art. 1 che “la tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana”, ribadisce all’art. 33 il carattere volontario degli accertamenti e dei trattamenti sanitari.

Infine anche nel codice di deontologia medica del 2006 si afferma che “il medico non deve intraprendere attività diagnostica e terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito ed informato del paziente”.

Sul piano delle decisioni giurisprudenziali il principio del consenso informato è ben presente in numerose sentenze della Corte di cassazione civile e penale; mi limiterò qui a ricordare la sentenza della Cassazione civile n. 21748 della 16 ottobre 2007, comunemente nota come sentenza Englaro. Questa sentenza, a suo tempo ferocemente criticata da ampi settori della politica e dell’opinione pubblica con toni fortemente aggressivi e con argomentazioni spesso del tutto incoerenti rispetto al punto deciso dai giudici, si presenta a mio avviso invece come una sentenza molto equilibrata che ha saputo conciliare tutti i principi di libertà e di autodeterminazione anche qui esposti, con il fondamentale diritto alla vita dell’individuo. Da ultimo il diritto all’autodeterminazione del malato come diritto garantito e tutelato dalla Costituzione è stato riaffermato in una recente sentenza della Corte d’Appello di Milano (sentenza n. 2359/2011) che ha deliberato sul caso di un soggetto testimone di Geova sottoposto con la forza ad una trasfusione di sangue obbligatoria.

Alla luce dei principi giuridici e delle fonti normative qui sommariamente enunciati, appare quindi pienamente lecito e garantito costituzionalmente il diritto della persona capace di rifiutare le cure e i trattamenti sanitari anche se da tale rifiuto possa derivare la morte della persona stessa.

Il punto invece oggetto di forti controversie giuridiche ed etiche è invece quello se tale diritto possa essere riconosciuto anche alla persona incapace, cioè alla persona che a causa del suo stato clinico non sia in grado di esprimere o negare autonomamente il consenso alle cure somministrate.

Dal punto di vista strettamente giuridico, i fautori della tesi che nega la legittimità del testamento biologico nel nostro ordinamento sostengono che essendo la persona incapace non in grado di esprimere il consenso libero ed informato, viene così a mancare quell’unico dato di certezza e di consapevolezza che potrebbe giustificare il rifiuto delle cure, per cui il solo principio applicabile in queste circostanze sarebbe quello solidaristico che impone al medico di somministrare ogni cura possibile. L’attualità del consenso, o meglio la mancanza di tale attualità, diviene quindi l’argomento principale in base al quale si vuole negare alla persona incapace la facoltà di esercitare un proprio diritto.

Ma a ciò si può obiettare che l’art. 32 della Costituzione non richiede che il consenso informato debba essere anche attuale, cioè espresso nel momento in cui diviene necessario prendere determinate decisioni; la norma costituzionale in realtà non afferma tanto un diritto ad esprimere il proprio consenso o dissenso, diritto che potrebbe essere esercitato solo dalla persona capace, quanto piuttosto un ben più ampio diritto a poter essere o non essere oggetto di trattamenti sanitari. Diritto questo di cui può e deve essere titolare anche il paziente incapace in quanto il solo fatto della sua attuale incapacità non significa che quel diritto non inerisca più alla sua sfera giuridica. La formulazione aperta dell’art. 32 della Costituzione non pare quindi assolutamente negare il riconoscimento di un diritto alla pianificazione anticipata delle cure, quale logica estensione del diritto alla libertà di cura in caso di incapacità sopravvenuta. Va dunque riconosciuto al soggetto il diritto di poter indicare attraverso dichiarazioni di volontà anticipate quali terapie desidera ricevere e quali rifiutare, nel caso in cui si venga a trovare in uno stato di incoscienza .

E’ qui che le direttive anticipate di trattamento diventano l’unico strumento possibile per assicurare anche alla persona incapace quel diritto che la Costituzione riconosce al soggetto capace.

La valorizzazione del consenso informato non deve però portare all’equivoco di assimilare detto consenso e le direttive anticipate di trattamento; con queste ultime il soggetto non sceglie una cura piuttosto che un’altra, ma intende tutelare la sua libertà prima ancora che la sua salute, vuole evitare che trovandosi in una condizione di incapacità ad esprimere la propria volontà gli venga sottratta la possibilità di esercitare quei diritti che invece gli sarebbero riconosciuti qualora si trovasse in una diversa situazione. Si chiarisce allora che il requisito dell’attualità del consenso vale per il paziente cosciente ma non costituisce un impedimento ad accettare la rilevanza di quanto stabilito dal soggetto in un testamento biologico, sempre che da tale documento emerga in modo incontrovertibile la conoscenza da parte del soggetto delle conseguenze delle proprie decisioni e la volontà di mantenere ferme comunque quelle decisioni. Il testamento biologico è lo strumento per evitare che la perdita di coscienza da parte della persona determini anche la perdita dei suoi diritti fondamentali.

E sul punto della manifestazione della volontà del paziente incapace sono ancora la prassi e la giurisprudenza (prevalente) ad aver individuato nell’amministratore di sostegno, figura giuridica prevista dagli articoli 404 e seguenti del Codice Civile, introdotta da una legge del 2004 , il soggetto deputato ad assumere quelle scelte fondamentali, già decise dal paziente nelle sue direttive anticipate ma non ancora rese pubbliche ed efficaci.

Fin qui ho tratteggiato a grandi linee il quadro generale di riferimento della materia oggi in Italia; le conclusioni accolte non impediscono però, come dicevo prima, di considerare l’opportunità ed anzi la necessità di una legge sul testamento biologico che introduca alcuni elementi di certezza in un campo altrimenti dominato da contrapposizioni violente.

E in effetti negli ultimi anni sono stati presentati da varie componenti politiche una serie di progetti di legge che nel loro iter parlamentare sono stati oggetto di profonde modifiche e revisioni e accorpamenti, fino ad arrivare al Disegno di Legge C 2350 (c.d. DDL Calabrò) approvato dal Senato della Repubblica il 26 marzo 2009, in un testo risultante dalla unificazione di numerosi disegni di legge, e modificato dalla Camera dei Deputati il 12 luglio 2011, denominato: “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”. Questo testo normativo rappresenta attualmente lo stato più avanzato del dibattito politico-parlamentare in tema di testamento biologico e quindi, pur nella consapevolezza che il recente mutamento del quadro politico renderà più incerta la sua definitiva approvazione in legge dello Stato, è utile esaminarne l’impostazione generale e i suoi aspetti più rilevanti.

All’art. 1 del disegno di legge è posto con forza il principio della tutela della salute e della vita umana come diritto inviolabile ed indisponibile e del divieto di qualunque forma di eutanasia. All’art. 2 si riconosce il principio del consenso informato nelle sue varie articolazioni e manifestazioni, anche in caso di soggetti incapaci, ma con la precisazione posta con enfasi e con forza che la decisione di tali soggetti è adottata avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita del soggetto incapace.

All’art. 3 il disegno di legge entra nel merito dei contenuti della dichiarazione anticipata di trattamento resa dal paziente, ma con il chiaro intento di limitarne al massimo le possibilità di scelta in quanto al soggetto è riconosciuta solo la facoltà di “esprimere orientamenti e informazioni utili per il medico, circa l’attivazione di trattamenti terapeutici, purché in conformità a quanto prescritto dalla presente legge”. Addirittura nel testo approvato dalla Camera dei deputati è scomparso il comma 2 dell’articolo 3 nella versione approvata al Senato ove era riconosciuto al paziente il diritto di “esprimere il proprio orientamento circa l’attivazione o non attivazione di trattamenti sanitari purché in conformità a quanto prescritto dalla legge e dal codice di deontologia medica”; Come si nota è un evidente passo indietro circa la sfera di libertà e di decisione lasciata al soggetto.

Al comma 4 dell’articolo 3 viene imposto il principio per cui “alimentazione ed idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita ad eccezione del caso in cui le medesime non risultino più efficaci …… Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”.

E’ questo uno dei punti più controversi del disegno di legge che ha dato luogo ad un dibattito molto acceso sulla natura dei trattamenti di idratazione ed alimentazione forzata. Il disegno di legge ha recepito in pieno l’orientamento che ritiene che tali tecniche siano solo forme di sostegno vitale, che non abbiano la natura di trattamenti sanitari e che quindi non possono essere oggetto di rifiuto da parte del paziente e non rientrino nella sfera delle azioni sottoposte a consenso informato.

E’ invece molto sostenuta nella comunità scientifica internazionale l’opinione, a mio avviso preferibile, che l’idratazione e l’alimentazione con sondino nasogastrico costituiscono un trattamento sanitario; esse integrano un trattamento che presuppone un sapere scientifico e specialistico, che è attivato da medici, anche se poi può essere proseguito da non medici, e che consiste nella somministrazione con procedure tecnologiche di preparati che comunque hanno natura di composti chimici e farmacologici .

E’ chiaro che con l’impostazione accolta dal disegno di legge praticamente si svuota di contenuto tutto l’istituto del testamento biologico e lo si rende di fatto inutilizzabile proprio in quei casi e in quelle situazioni in cui invece la sua presenza esplica il massimo di efficacia.

Con una norma di chiusura che non lascia dubbi sulle reali intenzioni del legislatore si afferma poi al comma 2 dell’art. 4 che “eventuali dichiarazioni di intenti o orientamenti espressi dal soggetto al di fuori delle forme e dei modi previsti dalla presente legge non hanno valore e non possono essere utilizzati ai fini della ricostruzione della volontà del soggetto”.

All’art. 6 la legge disciplina la figura del “fiduciario” come unico soggetto, nominato dalla persona nella sua dichiarazione anticipata di trattamento, legalmente autorizzato ad interagire con il medico nell’esclusivo interesse del paziente operando secondo le intenzioni legittimamente esplicitate dal soggetto nella dichiarazione anticipata. Ma è all’art. 7 che il disegno di legge manifesta tutta la sua avversione ad una libera applicazione della volontà del soggetto: nel definire il ruolo del medico la norma riconosce comunque al medico il potere di assumere le decisioni ultime in materia di cura, anche in contrasto con quanto prescritto dal soggetto nelle suo testamento biologico.

Il comma 2 dell’art. 7 dispone: “Il medico curante, qualora non intenda seguire gli orientamenti espressi dal paziente nelle dichiarazioni anticipate di trattamento, è tenuto a sentire il fiduciario o i familiari …. ed a esprimere la sua decisione motivandola in modo approfondito e sottoscrivendola sulla cartella clinica o comunque su un documento scritto che è allegato alla dichiarazione anticipata di trattamento.” Al comma 3 del medesimo articolo si ribadisce che “il medico non può prendere in considerazione orientamenti volti comunque a cagionare la morte del paziente o comunque in contrasto con le norme giuridiche o la deontologia medica”.

Anche il linguaggio rivela le intenzioni del legislatore: le “volontà” diventano “orientamenti”; il medico non può prendere in considerazione “orientamenti in contrasto con le norme giuridiche”, espressione questa che dice tutto e non dice niente in quanto in ogni campo dell’attività umana i comportamenti in contrasto con le norme giuridiche sono vietati; l’enfasi posta ad ogni passo sulla inviolabilità della vita umana e sulla tutela della vita e della salute, sono indicativi a mio avviso della impostazione di fondo di questo disegno di legge fortemente connotato in senso contrario alle istanze e ai principi di libertà e di autodeterminazione dell’individuo. Si tratta di un testo di legge ipocrita in cui i principi enunciati (consenso informato, alleanza terapeutica tra medico e paziente, dichiarazioni anticipate di trattamento) vengono poi disattesi dal contenuto delle singole norme, il consenso è di fatto vanificato perché non può esprimersi su questioni fondamentali come l’alimentazione e l’idratazione forzata, l’alleanza terapeutica è tutta spostata a favore del medico che comunque ha sempre l’ultima parola, le dichiarazioni anticipate di trattamento sono prive di ogni forza vincolante, l’individuo, proprio nel momento del fine vita, viene espropriato di ogni facoltà decisionale e il suo corpo viene consegnato a poteri esterni.

Per finire è utile affrontare alcuni aspetti di diritto comparato ed esaminare, seppur in maniera sommaria e non esaustiva, l’istituto del testamento biologico negli altri ordinamenti giuridici diversi da quello italiano. Ciò che rileva subito è che la maggior parte dei paesi europei e di quelli di common law possiede già una legislazione in materia di fine vita, essendone privi solo pochi paesi quali Grecia, Norvegia e Portogallo, anche se il riconoscimento dell’istituto da parte degli Stati non è trattato in maniera uniforme. La maggior parte degli Stati che hanno legiferato in materia riconosce efficacia vincolante alle direttive anticipate emanate dal paziente (e tra questi vi sono Spagna, Danimarca, Austria, Regno Unito, Germania, Paesi Bassi, Belgio) anche se con sfumature diverse tra i vari ordinamenti in ordine ai limiti delle direttive e alle modalità di attuazione e di controllo delle stesse.

In altri Stati, ad esempio la Francia, le direttive anticipate di trattamento hanno soltanto un valore indicativo e di esse si deve tenere conto all’atto della decisione medica senza tuttavia obbligo di darvi attuazione. Quanto al contenuto delle direttive anticipate tutte le legislazioni si limitano a consentire il rifiuto di determinate cure o trattamenti sanitari, anche se da essi possa discendere pericolo per la vita umana o addirittura la morte, salvo alcuni paesi come Belgio, Svizzera e Paesi Bassi ove invece è ammessa anche l’eutanasia attiva e sono previste norme di esclusione da responsabilità penale per il medico che, dopo una accurata verifica della libera volontà del soggetto e della sua consapevolezza in ordine alle conseguenze della richiesta, verifica questa comunque soggetta ad una serie di cautele e garanzie opportunamente normate, causi la morte del soggetto mediante un intervento medicale diretto.

Senza entrare nel merito delle diverse legislazioni in quanto ciò richiederebbe un approfondimento specifico, mi limito solo a sottolineare la legge in materia di testamento biologico della Germania, ultimo Stato europeo ad aver emanato nel 2009 una legge apposita, nonostante il problema fosse stato ampiamente affrontato, in passato, dalla giurisprudenza in alcune importanti sentenze e dalla Commissione nazionale di Bioetica nelle sue raccomandazioni, sempre sulla base di un riconoscimento dei valori di libertà e di dignità sanciti dalla costituzione di quello Stato. La legge tedesca si distingue per un grande equilibrio tra i valori costituzionali di libertà e di dignità dell’individuo, il principio di precauzione e il giusto riconoscimento del rispetto e della professionalità del medico curante. Centrale è il ruolo del Betreuer (ossia del fiduciario indicato dal soggetto nel suo testamento biologico o nominato dal Giudice Tutelare) il quale in presenza di un testamento biologico deve innanzi tutto verificare se la volontà dell’assistito è ancora attuale e se la disposizione si attagli alle attuali condizioni di vita e di salute del soggetto e in caso positivo deve esternare e far rispettare la volontà del suo assistito. Le dichiarazioni anticipate non soffrono poi alcuna limitazione in ordine ai tipi di trattamento sanitario che possono essere chiesti o rifiutati, essendovi compresi anche l’idratazione, l’alimentazione o la ventilazione forzate. La discrezionalità del fiduciario è comunque limitata da varie norme che prevedono innanzi tutto un confronto costante e dialettico con il medico curante in modo da affrontare ciascun caso concreto nella sua specificità e peculiarità, senza ricorrere ad automatismi di sorta; inoltre la legge tedesca prevede l’intervento del Giudice tutelare in tutti i casi in cui la volontà del paziente incapace non sia chiara ed accertabile fino in fondo e sussista il pericolo concreto che il rifiuto del trattamento sanitario possa condurre alla morte del paziente; l’autorizzazione del Giudice tutelare non è invece richiesta quando la volontà del paziente è ben chiara o quando il medico e il fiduciario sono concordi nel ritenere che il rifiuto della cura corrisponde alla volontà, ai desideri e alle convinzioni etiche e religiose del paziente. La legge tedesca accoglie quindi il principio della vincolatività delle dichiarazioni anticipate di trattamento, prevedendo al contempo che il medico e il fiduciario, in confronto dialettico tra essi, e in ultima istanza il giudice, debbano procedere ad una valutazione e attualizzazione delle disposizioni in relazione alle peculiarità mediche ed umane che ogni caso porta con sé; la legge tedesca ristabilisce così anche per il paziente incapace quella alleanza terapeutica tra medico e paziente, attuata per il tramite del fiduciario, basata su un principio di dignità e di libertà dell’individuo, principio quest’ultimo che il progetto di legge italiano ha completamente disatteso.